Un tasso di povertà inchiodato da anni attorno all’11% delle famiglie e al 13% degli individui. Una distribuzione della povertà altrettanto inchiodata alle caratteristiche di sempre: concentrata al Sud, tra le famiglie numerose, ma anche tra le persone sole anziane, specie donne, tra le famiglie in cui la persona di riferimento è a bassa istruzione, e se è disoccupata. È il quadro che emerge dai dati diffusi ieri dall’Istat. Certo meno sparati e drammatici di quelli presentati un mese fa dal Rapporto Caritas, che stimava, con qualche eccesso d’immaginazione statistica, che un quarto della popolazione fosse a rischio di povertà.
È proprio questa persistenza e immodificabilità ad apparire sconfortante e a segnalare il fallimento delle politiche sia del lavoro che del sostegno alle famiglie con figli, che del sostegno all’occupazione femminile soprattutto tra i ceti più modesti, che infine del sostegno a chi si trova disoccupato senza appartenere alle categorie protette dagli ammortizzatori sociali. Si stima che siano in queste condizioni circa un milione e mezzo di lavoratori «atipici». E il loro numero è destinato ad aumentare nei prossimi mesi, dato che saranno i primi a essere licenziati («non rinnovati»), mentre le aziende affronteranno la recessione. Aggiungiamo che tutti i confronti internazionali, ultimo quello del rapporto Ocse di qualche settimana fa, segnalano che l’Italia non è solo uno dei paesi sviluppati più disuguali, ma anche quello in cui chi è povero lo è più a lungo, proprio per la scarsa efficienza, quando non assenza, delle politiche che dovrebbero contrastarla: sostegni al reddito dei poveri e di chi ha carichi familiari, investimento nella istruzione mirato a migliorarne la qualità e a contrastare le disuguaglianze dei punti di partenza, politiche di sviluppo locale e così via.
Accanto al dato della stabilità, un altro dovrebbe far riflettere alla luce di quanto è successo quest’anno (i dati infatti si riferiscono al 2007) e di ciò che succederà nei prossimi mesi. Si notano infatti piccoli segnali di peggioramento proprio nei gruppi sociali e nei tipi di famiglie che tradizionalmente presentano tassi di diffusione della povertà molto più bassi della media: le coppie con un solo figlio, le famiglie con persona di riferimento alle soglie della età pensionabile, con un’età compresa tra 55 e i 64 anni, tra le famiglie con due o più anziani. L’inflazione ha eroso i redditi modesti, ma prima adeguati. La perdita del lavoro quando si ha un’età matura, nonostante la retorica sul prolungamento della vita attiva, rende difficile ritrovarlo e continuare a costruirsi la pensione. La precarietà dei redditi dei giovani adulti che costringe le famiglie a integrare come possono. Questi fenomeni gettano le loro ombre anche sulla modesta sicurezza di gruppi finora relativamente protetti e si fanno tanto più minacciose nella congiuntura attuale. Si deve anche tener presente che l’Indagine Istat su cui questi dati si basano, essendo campionaria, non riesce a cogliere ciò che succede a tra le famiglie immigrate, anche di quelle regolari e che pagano le tasse, che in media hanno meno riserve su cui contare.
È difficile mettere mano a un profondo mutamento di rotta in un momento di crisi. Soprattutto sono difficili politiche di grandi, radicali investimenti. Ma si dovrebbe evitare di fare interventi di piccolo cabotaggio, dispendiosi quanto inutili e a rischio di produrre nuove disuguaglianze. Meglio razionalizzare la spesa esistente per renderla più efficiente ed equa. Davanti al rischio d’un forte aumento della disoccupazione occorre almeno eliminare gli steccati tra garantiti e non garantiti, con la riforma degli ammortizzatori sociali che è annunciata da anni. Invece d’inventarsi detassazione di straordinari o della tredicesima, occorre intervenire in modo sistematico ed equo sul fiscal drag e sul credito d’imposta per i più poveri. E invece d’inventarsi un qualche nuovo bonus bebé, sarebbe il caso di pensare a una riforma seria degli assegni al nucleo famigliare.
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