Quando a fine anno l'Italia si troverà tagliata fuori dalla cosiddetta «eleggibilità» del Protocollo di Kyoto, allora forse sarà più chiaro a tutti quanto ci costa la propaganda populista del governo Berlusconi in materia di «risparmi» sulla spesa pubblica. Ma giusto per stare al gioco di Brunetta e Tremonti e di tanto ciarlare di efficienza, funzionalità, competitività e rapporto costi benefici, si potrebbe invitare i ministri della Funzione pubblica e dell'Economia a rifare due conticini semplici semplici che proprio non tornano. Quanto risparmia l'Italia sul taglio già in atto dei 675 ricercatori precari del neonato Istituto superiore per la Protezione e la ricerca ambientale (Ispra, in applicazione del Dl 112/08)? Considerando lo stipendio pro capite che al massimo raggiunge i 1.500 euro netti al mese, fa su per giù circa 1 milione e 700 mila euro l'anno che rientrano nelle casse pubbliche. Poca cosa davvero se si pensa che a loro sono affidati attività istituzionali di enorme importanza per il Paese, come l'amministrazione e la gestione del Registro nazionale dell'Emissions trading o della stima e della trasmissione dell'Inventario delle emissioni del gas serra. Impegni inderogabili presi a livello internazionale che non saremo più in grado di rispettare. In altre parole, quando a dicembre si concluderà l'eliminazione di tutto il personale precario dell'istituto, e in particolare di un gruppo di 8 (otto) ricercatori addetti, l'Italia sarà fuori da Kyoto e l'Unione europea inevitabilmente sarà costretta ad aprire una procedura di infrazione che costerà alle casse dello stato una prima multa forfettaria di 9 milioni e 900 mila euro, seguita dopo qualche tempo da sanzioni che vanno da 11 mila a 714 mila euro al giorno.
Ma non sono gli unici soldi che usciranno, a conti fatti, dalle tasche degli italiani. Nel computo non va dimenticata la spesa sostenuta finora per la formazione di quei 325 lavoratori a tempo determinato e 350 atipici che da anni - a volte da decenni - costituiscono il motore portante dei tre enti vigilati dal ministero dell'Ambiente e confluiti ad agosto nell'Ispra: Apat (Agenzia per la protezione dell'ambiente e dei servizi tecnici), Icram (Istituto centrale per la ricerca sulle acque marine) e Infs (Istituto nazionale per la fauna selvatica). Si tratta di alcuni milioni di euro, da 3 a 5, secondo le stime messe a punto nel 2006 da Riccardo Liburdi, uno degli studiosi assunti a tempo pieno dell'Apat. Maltrattati da governi di destra e di sinistra, i ricercatori precari hanno ricevuto il colpo finale dagli ormai famigerati decreto 133 ed emendamento Brunetta, l'«ammazzaprecari», che riducono del 10% la pianta organica nella pubblica amministrazione, restringono il turn over ad una assunzione ogni cinque pensionati, e bloccano le procedure di stabilizzazione. In sostanza, porte in faccia sul futuro di giovani e meno giovani, persone tra i 30 e i 50 anni, a volte invecchiate tra un contratto co.co.co. rinnovato ogni sei mesi e un concorso per un anno a tempo determinato da condividere con altri 8 mila aspiranti. Dei 1500 lavoratori costituenti la pianta organica dell'Ispra, la metà sono precari.
A farne le spese però saranno anche le aziende italiane, soprattutto quelle 945 più grandi che da sole producono la metà dell'inquinamento nazionale: sospendere la stima e la trasmissione dell'Inventario dei flussi di Co2 (anidride carbonica) e la gestione del Registro del mercato dei crediti di emissione «significa - spiegano alcuni ricercatori ex Apat che preferiscono rimanere anonimi - la perdita dell'«eleggibilità» dell'Italia del Protocollo di Kyoto, ossia del diritto acquisito dalle aziende a investire nei paesi in via di sviluppo o con economie di transizione in cambio di uno sconto sul tetto massimo di emissioni consentite in patria». Non solo: siccome ogni tonnellata di Co2 emesso va pagata e attualmente il prezzo viaggia attorno ai 20 euro, «le aziende - continuano i ricercatori - riceveranno un danno economico non indifferente anche dall'alterazione dei meccanismi di mercato, con transazioni valutabili nell'ordine di un miliardo di euro nel periodo 2008-2012». Se n'è accorta anche la ministra dell'ambiente Stefania Prestigiacomo che il 28 ottobre scorso, una decina di giorni dopo aver sostenuto la pretesa berlusconiana di rinegoziare con i partner europei i parametri di Kyoto, in un'intervista ha ammesso: «Se noi non rispettiamo gli obiettivi di Kyoto avremo delle penalizzazioni che possono ammontare a circa 450 milioni di euro l'anno, da qui al 2012».
E pensare che l'unica persona che in Italia sa dove mettere le mani nella gestione del così tanto prezioso Registro dell'Emissions trading è una ricercatrice precaria di 37 anni il cui contratto scadrà a dicembre prossimo. Ne è di fatto responsabile dal 2003, ossia da quando il Registro è stato istituito in Italia in attuazione di una direttiva europea, e a quel lavoro si è totalmente autoformata. Quando, almeno un paio di volte l'anno, incontra i suoi omologhi europei a Bonn o a Bruxelles, la disparità è netta. «Solo paesi come l'Estonia o la Lettonia hanno uffici di 4 o 5 persone a fare il mio stesso lavoro, e nessuno è precario», dice. Tanto per fare un esempio, in Germania l'istituto addetto al Registro di compravendita delle quote di emissione conta qualcosa come 300 ricercatori. La stima e la trasmissione dell'Inventario delle emissioni di Co2 (per la Convenzione dei cambiamenti climatici dell'Onu) è garantita invece da un gruppo di 10 ricercatori di cui 7 con contratto atipico o a tempo determinato. Secondo l'emendamento Brunetta questo tipo di contratti non possono essere rinnovati oltre il giugno 2009. Non solo: entro quella data possono essere stabilizzati solo coloro per i quali sono già state avviate le procedure ad hoc. E tutto il gruppo degli otto che lavora su Kyoto, come anche i loro colleghi che garantiscono il controllo sui rifiuti, piuttosto che sulla potabilità dell'acqua, che lavorano al monitoraggio degli scarichi o della contaminazione dei suoli, della qualità dei fiumi e dei mari o della qualità dell'aria, tutti loro aspettano da anni un concorso interno per la loro regolarizzazione.
Roberta, ricercatrice dell'Apat, ha 15 anni di lavoro precario alle spalle, proroga su proroga. Andrea, 32 anni, da solo gestisce il registro Ines, quello delle emissioni degli impianti industriali in acqua e aria. Vanno in ufficio tutti i giorni e timbrano il cartellino come i loro colleghi. Ma non hanno mai potuto accedere ai concorsi interni perché costretti sempre ad accettare contratti atipici, a partita Iva e via dicendo. Come loro c'è un intero gruppo di lavoro che l'Apat contrattualizzò nel 1999 per studiare gli aspetti geologici di Sarno subito dopo la frana. Anche loro pagati sempre a partita Iva, non hanno mai avuto i requisiti per essere assunti. Se poi il decreto 1441, passato alla Camera e attualmente in discussione al Senato, dovesse diventare legge, nessuno di loro potrebbe più vedersi rinnovare il contratto avendone collezionati più di tre nell'ultimo quinquennio. «Nello scorso governo Berlusconi - racconta un altro dipendente Apat - c'era stato un vero e proprio spoil system della dirigenza ed erano subentrati in massa esponenti di An, una classe politica di negazionisti dei problemi ambientali italiani, ma in realtà non c'erano mai stati grossi cambiamenti. La stessa cosa è successa poi con Pecoraro Scanio al dicastero dell'Ambiente che si era portato dietro mezzo Wwf. E finora nessuno si è accorto che c'è stato ancora un altro cambio al vertice del ministero. Malgrado tante chiacchiere, durante il Consiglio europeo dei ministri dell'Ambiente del 20 ottobre scorso la ministra Prestigiacomo non ha osato avanzare nessuna richiesta di rinegoziazione del Protocollo di Kyoto. Si tratta di una strategia tutta mediatica volta solo ad accaparrarsi il consenso delle imprese».
Abbandonati a loro stessi perfino dai sindacati - «troppo divisi» - i precari dell'Ispra hanno ormai optato per l'autoconvocazione e l'autogestione. Sono in mobilitazione da fine settembre e praticamente in assemblea permanente pura lavorando molto di più dei loro colleghi con posto fisso. E allora? «Siamo decisi a lottare - promettono - adesso c'è lo sciopero del 14 novembre a cui aderiremo spero tutti, dipendenti fissi e non. Perché la ricerca pubblica è una risorsa strategica su cui investire anche, e soprattutto, in tempo di crisi economica internazionale».