Da Il Tempo - di Roberto Giovannini.
Eccola, la «valanga» che rischia di sommergere l’economia produttiva in Italia. I dati, la statistica ancora non riescono a fotografare compiutamente un fenomeno che però tutti avvertono come pericoloso, preoccupante, potenzialmente devastante. Le cause sono molte, spiegano gli economisti. A livello «macro» c’è il ciclo, la crisi finanziaria, la frenata delle locomotive mondiali, la costante riorganizzazione del lavoro su scala planetaria. Poi ci sono i problemi «italiani»: un modello produttivo fragile, basato su produzioni di nicchia, poca innovazione, arretratezza finanziaria, una politica invasiva e inefficiente. Il risultato, tradotto in numeri. Le 153 milioni di ore di Cig già erogate nel 2008, +12% rispetto al 2007. Le 4.562 aziende fallite tra gennaio e giugno 2008 (erano 4.294, dice Unioncamere). Il calo della produzione industriale (-1% in settembre, per Bankitalia), dell’export, delle aspettative e del clima di fiducia di imprese e consumatori, delle vendite del commercio al dettaglio, dell’accumulazione di capitale (-0,2% nel secondo trimestre). Le 1108 imprese che hanno già fatto domanda al ministero per poter usufruire della Cig straordinaria. La caduta (in settembre del 5,68%, in termini reali chiarisce il Cerm, degli ordinativi delle imprese). I migliaia di posti perduti nelle piccole imprese che saltano. I migliaia di precari che vanno a casa per restarci.
L’onda della cassa integrazione
Al lavoratore in cassa integrazione spettano al netto circa 750 euro. Così dice la legge. Sono quasi 950 se «prima» guadagnava uno stipendio superiore a 1.500 netti. Provi, chi è curioso, a vedere come fa una famiglia ad andare avanti così. In Italia gli ammortizzatori sociali sono scarsi e mal congegnati. La cassa integrazione ordinaria, la «Cigo», serve a un’impresa in crisi «transitoria», che dura al massimo qualche mese. È quella più adoperata ora. Se la crisi è strutturale, c’è la Cig straordinaria, che può durare anche due o tre anni. Poi c’è la mobilità, ma il posto di lavoro non c’è più. Non tutti i lavoratori, non tutte le imprese, non tutti i settori produttivi godono di questa rete di protezione che assomiglia molto a un colabrodo. «Non i precari, non i contratti a termine, non gli interinali, non i co.co.pro, non i dipendenti (anche stabili) delle piccole aziende, ad esempio», ricorda il segretario confederale Cgil Susanna Camusso. Ovvero, la fetta (nettamente) maggioritaria del mondo del lavoro italiano. «Per adesso - spiega Giorgio Santini, segretario confederale della Cisl - noi registriamo solo un boom della Cig ordinaria, un’esplosione cominciata a giugno. Ci vogliono 6-7 mesi perché la Cigo si trasformi in qualcosa di peggio. Diciamo che verso febbraio, forse marzo arriverà la mareggiata della Cigs».
Gli anelli deboli saltano
Quando le cose cominciano ad andare male, a saltare per primi sono gli anelli deboli della catena. «I precari, i lavoratori con meno tutele e garanzie - spiega l’ex ministro del Lavoro Pd Cesare Damiano - quelli senza voce». È così tutto sommato anche per le imprese: i primi a pagare sono gli imprenditori dell’indotto, quelli che hanno meno possibiltà di muoversi e sono più fragili nei confronti delle banche. Seguono le aziende dei settori più colpiti dal taglio dei consumi: l’automobile, il frigorifero, il mobile? Acquisti che si possono rinviare in attesa di tempi migliori. L’edilizia, le costruzioni? Si aspetta. O quelli «voluttuari», come scarpe e abbigliamento. Ma va in crisi persino l’opulenta Emilia-Romagna, dice il presidente Vasco Errani, per colpa della «frenata della domanda interna e internazionale».
La mappa della crisi
Il colosso svedese del «bianco» Electrolux ha deciso di chiudere uno stabilimento a Scandicci e tagliare in Veneto. La Antonio Merloni di Fabriano è commissariata. A Torino la Motorola chiude il centro di ricerca. La farmaceutica (prima a sud di Roma, poi al Nord) è travolta dalla scadenza dei brevetti, con produzioni che si spostano in India e Cina. Gli alti costi dell’energia mettono in crisi la ceramica in Emilia e il piombo zinco e alluminio in Sardegna. Il distretto della sedia in Friuli boccheggia. L’edilizia è in frenata, strangolata - dicono i costruttori dell’Ance - dal patto di stabilità interno, che impedisce agli Enti locali persino di pagare le imprese per i lavori già conclusi.
L’auto? Si è fermata
L’automobile negli Usa vale 4 milioni di posti e il 4% del Pil; per Damiano (che come Santini e molti altri ritiene inevitabile un sostegno al comparto, sia pure mirato alle auto elettriche, a metano o ibride) «in Italia in proporzione l’auto pesa anche di più». Auto vuol dire Fiat, e la Fiat si è fermata. Di botto. A Torino si sono fermati (in Cig) 27mila lavoratori di 450 fabbriche metalmeccaniche, mentre 5.000 precari sono a casa senza un soldo. Si è fermata la Ergom a Termini Imerese, ma la crisi è planetaria, sono a rischio anche colossi come la Gm. È in pericolo quello che Antonio Sansone, segretario nazionale della Fim-Cisl, definisce «l’ampio comparto dell’indotto auto, che in Italia aveva cercato di uscire dalla dipendenza dalla sola Fiat». E nei guai non ci sono solo le «boite», ma anche «grandi» come la Brembo di Alberto Bombassei.
Moda, salotti: addio?
Valeria Fedeli, segretario generale dei tessili della Filtea-Cgil, snocciola dati angosciosi. 13mila lavoratori in Cigs: 66 da aziende che hanno chiuso i battenti, 18 lo stanno facendo, 95 hanno dichiarato la crisi, 14 sono in fallimento, 28 con contratti di solidarietà. La Cig ordinaria è aumentata del 20% nell’ultimo mese, poi ci sono le aziende piccole senza tutele. «Totale - afferma la sindacalista - stimiamo 30.000 posti a rischio nel 2008, che possono raddoppiare senza interventi nel 2009». E non sono le imprese marginali, ma i distretti «forti» del Made in Italy: Prato, la lana di Biella, la seta a Como, le calzature a Lecce e Fermo, la maglieria a Carpi, l’occhialeria nell’opulenta Belluno. Il suo collega della Fillea-Cgil, Walter Schiavella, ricorda la crisi gravissima della Natuzzi e dell’intero distretto del salotto in Puglia e Basilicata: oltre tremila in cassa integrazione, delle 500 aziende e 14.000 addetti di sei anni fa sono rimasti rispettivamente in 150 e 8.000.
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