di Carla Massi
ROMA - Ha scoperto che una tossina estratta da una spugna del Mediterraneo può diventare un’arma vincente contro il tumore del polmone. A novembre, per questo lavoro, Laura Paleari, 36 anni, da 12 precaria all’Istituto tumori di Genova, verrà premiata a Gerusalemme durante la più importante assise mondiale sulle ricerche sul cancro. Sarà premiata per questo brevetto che, una volta sviluppato, diventerà un farmaco da prescrivere appena fatta la diagnosi di neoplasia. Parliamo di un successo italiano che la Paleari è riuscita a conquistare insieme ad altri tre ricercatori (tutti precari come lei) del Cnr e dell’università di Genova. Erano in quattro, poco prima del 2005 quando hanno iniziato a studiare la spugna. Oggi sono rimasti in due a continuare a lavorare sulla tossina salva-polmone. Perché il gruppo si è dimezzato? Semplice. Perché solo due dei quattro sono riusciti a sostenere la vita da precari in laboratorio. Gli altri due, per meri motivi economici, hanno dovuto mollare. «Uno - spiega Laura Paleari - ha accettato di fare l’informatore scientifico, che vuol dire andare negli studi medici a promuovere i farmaci di un’azienda, mentre l’altro, sempre da precario, insegna scienze in un liceo. Li abbiamo persi dopo anni e anni di impegno». Federico Bottini, ricercatore precario da 16 anni all’istituto Gaslini di Genova, guadagna circa mille euro al mese. Ha superato i quaranta, si barcamena tra un mare di difficoltà ma, perché ostinato e determinato in quello che fa, non ha mai voluto lasciare i suoi progetti sui fattori di coagulazione. Luca Roz, 39 anni, è riuscito a collezionare borse di studio su borse di studio: si occupa di citogenetica, oncologia sperimentale. Oggi sta all’Istituto nazionale tumori di Milano. Dice che ha tanta passione, che ha avuto riconoscimenti di qua e di là dell’Oceano ma, quando va in banca per chiedere un mutuo, riceve solo una calda stretta di mano perché lui ha poche garanzie (economiche) da dare.
Laura, Federico e Luca sono tre degli oltre 2500 ricercatori che lavorano nei diciotto istituti di ricerca, gli Irccs. «E’ un pazzo chi, nel nostro paese, vuol fare questo lavoro - dicono -. E’ ancora più pazzo e, più sfigato, chi entra in un istituto in cui si curano i malati e si fa ricerca. Pensiamo al Regina Elena di Roma, come l’Istituto tumori di Milano». Poche parole per ”raccontare“ qual è il quotidiano di questi piccoli-grandi scienziati senza posto fisso che dedicano la loro vita al microscopio di un Irccs. Una sorta di “topi di laboratorio” che, da poco, si sono riuniti in un’associazione perché il loro status giuridico-amministrativo è diverso dai loro colleghi che lavorano negli atenei. Già, camici dedicati alla scienza tutti e due, ma, sulla carta assai diversi e, soprattutto, con strade davanti assai diverse: i ricercatori degli Irccs, infatti, dipendono dal ministero della Salute mentre quelli degli atenei dal ministero dell’Università. Tutta qui la differenza?
«Apparentemente sembra una banalità - spiega Laura Paleari che è portavoce dei ricercatori Irccs - ma, nella realtà, la nostra vita professionale e la loro è molto diversa. E, a tempi brevi, sarà ancora più diversa. Noi possiamo essere considerati come dei dipendenti di un ministero, della pubblica amministrazione in generale, mentre gli altri hanno la possibilità di fare la carriera universitaria. Noi siamo degli autentici co.co.co con tutti i problemi dei rinnovi del contratto mentre gli altri hanno, diciamo i più fortunati, un possibile iter negli atenei». Un problema: dagli anni ’90, nella pubblica amministrazione, le assunzioni sono bloccate. Una particolarità: in questi istituti esistono leader dei gruppi di ricerca che sono precari da oltre vent’anni. La maggior parte sono chimici e biologi. «I medici - dicono ancora - riescono ad essere meglio “riciclati” negli istituti. I biologi e i chimici, invece, rischiano mano a mano di sparire. Per giunta, le ultime direttive del governo mettono dei paletti ai rinnovi dei contratti a termine per chi lavora nella pubblica amministrazione. E noi come faremo?». Già oggi nei diversi istituti gli amministratori stanno lavorando sull’interpretazione delle ultime norme secondo le quali non è possibile «ricorrere all’utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell’arco dell’ultimo quinquennio». E noi, si domandano i ricercatori degli istituti, come facciamo dal momento che andiamo avanti solo con contratti a termine che vanno da uno a tre anni per volta? Contratti che, in realtà, sono borse o contributi di fondazioni. «Un grande problema burocratico - aggiunge la Paleari - che appesantisce il lavoro di tutti i giorni e che, piano piano, sta spingendo tutti ad andare a bussare ad altre porte. Ma, la stragrande maggioranza, ha un’età media di 40 anni. Non sappiamo dove andare, non abbiamo, in queste condizioni, una carriera davanti da poter perseguire. Siamo una forza della ricerca italiana ma, in modo più o meno evidente, stiamo anche scomparendo». Come le specie in via di estinzione.
ROMA - Ha scoperto che una tossina estratta da una spugna del Mediterraneo può diventare un’arma vincente contro il tumore del polmone. A novembre, per questo lavoro, Laura Paleari, 36 anni, da 12 precaria all’Istituto tumori di Genova, verrà premiata a Gerusalemme durante la più importante assise mondiale sulle ricerche sul cancro. Sarà premiata per questo brevetto che, una volta sviluppato, diventerà un farmaco da prescrivere appena fatta la diagnosi di neoplasia. Parliamo di un successo italiano che la Paleari è riuscita a conquistare insieme ad altri tre ricercatori (tutti precari come lei) del Cnr e dell’università di Genova. Erano in quattro, poco prima del 2005 quando hanno iniziato a studiare la spugna. Oggi sono rimasti in due a continuare a lavorare sulla tossina salva-polmone. Perché il gruppo si è dimezzato? Semplice. Perché solo due dei quattro sono riusciti a sostenere la vita da precari in laboratorio. Gli altri due, per meri motivi economici, hanno dovuto mollare. «Uno - spiega Laura Paleari - ha accettato di fare l’informatore scientifico, che vuol dire andare negli studi medici a promuovere i farmaci di un’azienda, mentre l’altro, sempre da precario, insegna scienze in un liceo. Li abbiamo persi dopo anni e anni di impegno». Federico Bottini, ricercatore precario da 16 anni all’istituto Gaslini di Genova, guadagna circa mille euro al mese. Ha superato i quaranta, si barcamena tra un mare di difficoltà ma, perché ostinato e determinato in quello che fa, non ha mai voluto lasciare i suoi progetti sui fattori di coagulazione. Luca Roz, 39 anni, è riuscito a collezionare borse di studio su borse di studio: si occupa di citogenetica, oncologia sperimentale. Oggi sta all’Istituto nazionale tumori di Milano. Dice che ha tanta passione, che ha avuto riconoscimenti di qua e di là dell’Oceano ma, quando va in banca per chiedere un mutuo, riceve solo una calda stretta di mano perché lui ha poche garanzie (economiche) da dare.
Laura, Federico e Luca sono tre degli oltre 2500 ricercatori che lavorano nei diciotto istituti di ricerca, gli Irccs. «E’ un pazzo chi, nel nostro paese, vuol fare questo lavoro - dicono -. E’ ancora più pazzo e, più sfigato, chi entra in un istituto in cui si curano i malati e si fa ricerca. Pensiamo al Regina Elena di Roma, come l’Istituto tumori di Milano». Poche parole per ”raccontare“ qual è il quotidiano di questi piccoli-grandi scienziati senza posto fisso che dedicano la loro vita al microscopio di un Irccs. Una sorta di “topi di laboratorio” che, da poco, si sono riuniti in un’associazione perché il loro status giuridico-amministrativo è diverso dai loro colleghi che lavorano negli atenei. Già, camici dedicati alla scienza tutti e due, ma, sulla carta assai diversi e, soprattutto, con strade davanti assai diverse: i ricercatori degli Irccs, infatti, dipendono dal ministero della Salute mentre quelli degli atenei dal ministero dell’Università. Tutta qui la differenza?
«Apparentemente sembra una banalità - spiega Laura Paleari che è portavoce dei ricercatori Irccs - ma, nella realtà, la nostra vita professionale e la loro è molto diversa. E, a tempi brevi, sarà ancora più diversa. Noi possiamo essere considerati come dei dipendenti di un ministero, della pubblica amministrazione in generale, mentre gli altri hanno la possibilità di fare la carriera universitaria. Noi siamo degli autentici co.co.co con tutti i problemi dei rinnovi del contratto mentre gli altri hanno, diciamo i più fortunati, un possibile iter negli atenei». Un problema: dagli anni ’90, nella pubblica amministrazione, le assunzioni sono bloccate. Una particolarità: in questi istituti esistono leader dei gruppi di ricerca che sono precari da oltre vent’anni. La maggior parte sono chimici e biologi. «I medici - dicono ancora - riescono ad essere meglio “riciclati” negli istituti. I biologi e i chimici, invece, rischiano mano a mano di sparire. Per giunta, le ultime direttive del governo mettono dei paletti ai rinnovi dei contratti a termine per chi lavora nella pubblica amministrazione. E noi come faremo?». Già oggi nei diversi istituti gli amministratori stanno lavorando sull’interpretazione delle ultime norme secondo le quali non è possibile «ricorrere all’utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell’arco dell’ultimo quinquennio». E noi, si domandano i ricercatori degli istituti, come facciamo dal momento che andiamo avanti solo con contratti a termine che vanno da uno a tre anni per volta? Contratti che, in realtà, sono borse o contributi di fondazioni. «Un grande problema burocratico - aggiunge la Paleari - che appesantisce il lavoro di tutti i giorni e che, piano piano, sta spingendo tutti ad andare a bussare ad altre porte. Ma, la stragrande maggioranza, ha un’età media di 40 anni. Non sappiamo dove andare, non abbiamo, in queste condizioni, una carriera davanti da poter perseguire. Siamo una forza della ricerca italiana ma, in modo più o meno evidente, stiamo anche scomparendo». Come le specie in via di estinzione.
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