di Francesca Assennato
FLC CGIL ISPRA
Mi chiamo Francesca Assennato, lo ripeto, perché questa è una battaglia in cui ciascuno ci dovrebbe mettere il proprio nome, la propria faccia, dovrebbe farne una questione personale.
Voglio testimoniare con questo intervento la nostra condizione di cittadini che dopo anni di studi, di lavori ed esperienze fatte sempre con l’obiettivo di crescere e migliorare, dopo tanta strada sentono di non avere un posto degno in questo paese. Voglio parlare di una vita da precario.
Arrivi magari a volte anche per caso a lavorare in un ente pubblico. Ti porti le tue speranze, la tua energia di giovane persona, ti conquisti uno spazio, un mestiere, dai un senso alla tua vita. E magari sei pure contento di poter dedicare il tuo impegno e la tua fatica al tuo Paese, questo ti riempie di orgoglio, ti fa lavorare di più.
Sai anche che all’inizio è dura, che tutto è un po’ precario, ma ti dici che vale per tutti, che bisogna iniziare in qualche modo. E, inoltre, ti fidi, perché tutti quelli intorno a te, familiari, maestri, amici, colleghi, perfino i ministri ti ripetono in continuazione che non devi preoccuparti. Ti ripetono tutti “vedrai prima o poi ti assumeranno, figurati se dopo tanto tempo non ti assumono, sarebbe assurdo!”.
Poi però passano anni in questo modo, e tu speri ancora ma hai anche paura. E poi ancora arriva uno in alto, che ha deciso di fare i comodi suoi e che per fare bella figura con il suo padrone, pur non capendo niente di ciò che tocca, inizia a giocare con la tua vita. E si inventa ogni giorno una nuova regolina che butta fuori qualcuno. E tu stai li che aspetti il tuo turno per finire fuori.
Vorrei che la testimonianza delle persone in carne ed ossa aiutasse a capire la situazione di grande disorientamento sia lavorativo che della sfera personale, un disorientamento creato da questa condizione di precario protratta per anni, allungata sempre di più senza fine.
Cercate di immaginare cosa significa pensare alla propria intera vita da precario. Significa sentire che non sei parte di un progetto comune, che non c’è spazio per te, perchè tu possa lavorare bene. E significa anche che sei solo con la tua precarietà e lo rimarrai, perché è difficile che in questa situazione tu riesca a pensare alla solidarietà, a ciò che potresti donare alla causa comune, a come migliorare il lavoro che fai. Ci hanno incastrati in una rete di egoismo. E così una intera generazione di persone in questo paese muore sena dare alcun contributo.
Ma perché è successo tutto questo? Questo male viene da lontano, viene dallo svilire l’importanza del lavoro, quello con al L maiuscola, per dare importanza solo a denaro e consumo. Abbiamo dimenticato che quel Lavoro significa affermazione umana, significa riscatto dalle proprie condizioni di origine siano esse misere o più fortunate, quel Lavoro sul quale altre donne e uomini come noi hanno fondato la nostra Repubblica? Quel Lavoro si chiama sviluppo umano e Libertà.
Noi lavoratori scioperiamo, come estremo segno del nostro disagio davanti a questa situazione, davanti alla negazione del diritto al futuro, alla negazione della speranza. E diciamo NO con tutta la forza che abbiamo, No a questo schifo di affari, annunci e inciuci. Noi lavoriamo, vogliamo lavorare e volgiamo lavorare bene, perché è il nostro futuro che vogliamo costruire. Per poterlo fare, però, abbiamo bisogno di una cosa: abbiamo bisogno della dignità del lavoro e della persona, che oggi dobbiamo difendere. Perché non c’è futuro che valga la pena vivere senza dignità.
E non è degno un lavoro che fai da anni col contratto che ti scade ogni sei mesi, e il ricatto ogni volta per riaverlo; non è degno lo strapotere dei vari potenti che con soldi pubblici, i nostri soldi, giocano a risiko con noi come pedine; non è degno lavorare per meno di 1000€ al mese quando l’affitto di casa ti costa di più; non è degno un contratto di collaborazione, che non ti dà le forme minime di sostegno CIVILE, come maternità, malattia e ammortizzatori sociali.
Questo di cui parlo è il senso di impotenza di una intera generazione che così stiamo distruggendo. Però siamo scesi in piazza in tanti a protestare, per mesi e ancora ci siamo, ma penso anche a tutti quelli che non partecipano attivamente ma condividono questa preoccupazione. Ci siamo e significa che siamo vivi, che possiamo riprenderci il nostro diritto a lavorare bene e chi ce lo nega semplicemente sbaglia e se ne deve andare a casa lui.
Concludo con la speranza che ciascuno di noi si opponga e difenda la propria dignità di lavoratore e di persona quando e quanto può, in ogni stanza, ad ogni livello, in ogni discussione anche al bar e con gli amici. Bisogna fare di questa battaglia una questione personale, perché non c’è nulla di più personale della nostra vita e del nostro futuro.