di Tonia Mastrobuoni - Il Riformista
Per chi votano i precari? La domanda, ammette Nando Pagnoncelli, presidente dell’Ipsos, «non è peregrina», visto che si tratta ormai di milioni di persone, di una fetta crescente di lavoratori con una scadenza scritta sul contratto. Il suo istituto, osserva, non ha mai svolto un sondaggio sulle preferenze politiche di questi lavoratori. Anche perché «è molto difficile definire il termine “precario”», a tutt'oggi. Ma la questione è interessante perché stiamo parlando della categoria più dimenticata degli ultimi dieci anni. E non solo dai partiti.
Il crescente universo dei precari è vittima di una promessa mancata. Che si ripete dal 1997 di governo in governo, di qualsiasi colore. Da quando è stata introdotta cioè la prima riforma seria che ha flessibilizzato il mercato del lavoro, la Treu. Da allora un'ampia platea di lavoratori, sempre più giovane e “rosa” e sempre più concentrata al Sud, che oscilla negli studi più autorevoli tra i 2,8 e i 4 milioni, attende invano “il lato b” di quella riforma. Cioè un riordino serio degli ammortizzatori sociali, richiamato di recente con forza anche dal governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi. A fronte di un abbattimento drastico della rigidità in entrata avvenuta dagli anni Novanta, con tipologie di contratto che si sono moltiplicate fino a raggiungere cifre parossistiche (oggi sono una quarantina), i governi hanno sempre promesso che avrebbero risistemato l'obsoleto sistema misto di cassa integrazione e disoccupazione, per offrire una tutela a questi funamboli senza rete. Invece, niente. Tanto che nei rapporti della Ue sull’occupazione, l'Italia continua ad essere criticata per un livello di sicurezza sociale molto basso, se non totalmente assente, che contrasta con un livello di flessibilità lavorativa «medio-alta». Se i milioni di precari dovessero trarre una lezione da questa enorme promessa mancata degli ammortizzatori sociali, se dovessero giudicare le rare iniziative spot messe in campo da qualche governo (come il limite dei 36 mesi di contratti a termine del governo Prodi o l'una tantum per i precari nel decreto anticrisi dell'attuale esecutivo), verrebbe di pensare che questo esercito crescente di precari, nei confronti del quale anche il sindacato è stato piuttosto distratto, stia ingrossando le fila degli astensionisti. Il primo problema, tuttavia, è definire i precari. Nella relazione annuale presentata il 29 maggio scorso, la Banca d'Italia ha prodotto la famosa tabella, contestata dal premier, su 1,6 milioni di occupati, sia a tempo indeterminato (nel privato) sia a termine (qui sono esclusi gli autonomi “veri”, non i parasubordinati mascherati) che rischiano di restare senza tutele. Ma dalle tabelle si desume anche una cifra complessiva sui lavoratori flessibili: 1,960 milioni di lavoratori a termine, 116mila interinali, 260mila apprendisti e 542mila collaboratori a progetto «e altri autonomi parasubordinati». Totale: oltre 2,8 milioni di lavoratori con una scadenza scritta sul contratto. Un numero che coincide con quello dell'Istat, che nell'ultimo rapporto annuale lo traduce in percentuale: 11,9 per cento di cosiddetti «atipici». Ma c'è chi li chiama precari, come Emiliano Mandrone, un ricercatore dell'Isfol che aggiorna le sue stime spesso su Lavoce.Info, e include in questa stima non soltanto gli occupati a termine ma anche i parasubordinati, cioè chi è formalmente autonomo ma ha un rapporto di lavoro da dipendente. Infine, Mandrione include nel calcolo anche le persone in cerca di lavoro, dopo la scadenza di un contratto. Totale: 4 milioni di «precari»: 3,5 milioni occupati e circa 0,5 milioni di «non più occupati». Sui parasubordinati mascherati da autonomi, anche l'Istat ammette che c'è qualche problema di classificazione. Infatti, sempre nel rapporto 2008, l'istituto di statistica scrive che ci sono circa 100mila autonomi che includono muratori, collaboratrici domestiche, camionisti o assitenti familiari, «che potrebbero rientrare, in base a un criterio di parasubordinazione, nell'area del lavoro atipico, ma potrebbero anche risentire prima di altre della persistente contrazione della domanda». Viceversa, c'è un'ampia platea di collaboratori che sono dirigenti o ricercatori universitari e che «vantano comunque consistenti margini di autonomia» nel lavoro e nell'orario. Insomma, che nell'immaginario difficilmente vengono associati al precariato. Comunque, al di là dei confini labili del termine, quello che caratterizza una parte ormai consistente dei lavoratori, soprattutto giovani, donne e meridionali, ammettono ormai tutti, dall'Istat all'Isfol, è una permanenza troppo lunga nel lavoro con contratti flessibili, che ha conseguenze pesanti sia sulle carriere e le prospettive, sia sulle retribuzioni. E sono anche senza protezione, tra un lavoro all'altro. Un milione e mezzo di persone, secondo Mandrone, soffrono ogni anno di periodi più o meno lunghi di inattività. E le retribuzioni, come osserva l'Isfol, «spesso non corrispondono alle esigenze di giovani che vogliano legittimamente rendersi autonomi dalla famiglia, così come le donne, quando, per lavorare, debbano accollarsi l'onere dei servizi per la cura dei familiari».
Guadagnano, dice l'Istat, in media 1024 euro al mese, «il 24 per cento in meno di un dipendente standard a tempo pieno». Negli anni, siccome non hanno scatti di anzianità, diventa «particolarmente significativo il progressivo allargamento del differenziale salariale al crescere dell'anzianità lavorativa». L'allungamento dei tempi raggiunge in alcuni casi livelli insostenibili (si veda la tabella accanto): 1 milione e 600mila lavoratori, rileva l'Istat, «sono presenti nel mercato del lavoro per più di dieci anni». Chi entra in questa “trappola della precarietà” è collocato «in classi di età più adulte, spesso con ruoli di responsabilità familiare». Per queste persone un' eventuale perdita del posto del lavoro è, perciò, «più grave».
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