Di Roberto Mania - Da flessibili a precari. Da precari a disoccupati. La recessione sconvolge i mercati globali ma anche quelli locali del lavoro. In Italia ci sono circa 4 milioni di lavoratori con contratto atipico e per molti di loro l'obiettivo del posto fisso scolorisce e forse svanisce dentro la perfetta tempesta finanziaria. Per gli atipici, piuttosto, questa è la stagione dei licenziamenti, mentre la precarietà allarga i suoi tentacoli e penetra in quella che era la cittadella dei garantiti del contratto a tempo indeterminato. S'avanzano valanghe di cassa integrazione e di mobilità. E almeno un milione di atipici rischia di finire nelle liste di disoccupazione. La flex-security resta un anglicismo e soprattutto uno slogan con poca fortuna nel Belpaese.
Questa è la prima recessione che affrontano i precari made in Italy. La precedente, quella del '93 con quasi un milione di posti persi, non l'hanno vista semplicemente perché non c'erano. Il pacchetto Treu e poi la legge Biagi, con le tante tipologie contrattuali, arriveranno dopo, a cavallo tra il Novecento e il nuovo secolo: dai co. co. co ai co. co. pro; dal lavoro interinale a quello in somministrazione; dal job sharing al job on call, fino allo staff leasing. Si disse che bisognava rendere più facile l'ingresso nel mercato del lavoro. E le generazioni più giovani hanno sperimentato tutte le vie d'accesso. Ma ci si accorge oggi che è soprattutto più facile licenziare. O non rinnovare i contratti a tempo, che poi è lo stesso. Così - stando a un sondaggio di Eurispes - oltre il 46 per cento degli italiani ritiene che le nuove regole del mercato del lavoro abbiano soltanto reso più difficili le possibilità occupazionali dei più giovani.
Eppure certifica l'ultimo Rapporto del Censis - tra il 2004 e il 2007 l'incremento del lavoro atipico è stato del 14,7 per cento contro una crescita di quello tipico di appena il 2,3 per cento. E ancora: nello stesso periodo i contratti a tempo determinato sono aumentati di quasi il 19 per cento.
I numeri complessivi sui precari in transito verso la disoccupazione ancora non ci sono, ma basta guardare cosa sta accadendo in alcune regioni industriali del nord, dove la crisi sta picchiando già duramente, per intuire il trend. In Piemonte a dicembre le assunzioni attraverso i contratti a tempo determinato sono crollate di quasi il 20 per cento, dopo il - 13,3 per cento di ottobre e il - 18 per cento di novembre. I prossimi mesi, va da sé, saranno peggiori. Tra ottobre e novembre nel torinese - dati provenienti dai Centri per l'impiego - si sono persi, senza i rinnovi dei contratti a termine, così quasi 21 mila posti di lavoro, quando solo nei tre mesi precedenti il calo era stato decisamente più contenuto: poco più di 4.000.
Il grafico del Veneto non è diverso e l'inversione di tendenza si è registrata a ottobre: da quasi 12 mila contratti a tempo determinato di settembre e meno di 7.000 a novembre. Poi c'è l'Emilia Romagna: nel 2008 sono stati assunti con contratto a tempo determinato 109 mila persone, 90 mila di queste scadono nei primi sei mesi di quest'anno. Dire che sono a rischio è un eufemismo.
Tre economisti del sito de lavoce. info (Fabio Berton, Matteo Richiardi e Stefano Sacchi) hanno stimato che a dicembre sarebbero scaduti 300 mila contratti a tempo determinato e solo una parte di questi (meno del 38 per cento) avrebbe poi potuto ottenere il sostegno al reddito. Perché - nell'epoca della produzione just in time e, appunto, della flessibilità del lavoro - il sistema degli ammortizzatori sociali, salvo qualche intervento realizzato dall'ultimo governo di centrosinistra, non è ritagliato per le misure degli atipici. Che non hanno la cassa integrazione perché non mantengono il rapporto con la propria azienda, e per i quali l'accesso all'indennità di disoccupazione è spesso un tragitto tortuoso per superare gli ostacoli che la legge frappone a chi non ha avuto un rapporto standard senza interruzioni. D'altra parte questo è il doppio mercato del lavoro che si è ingrossato negli anni e che non si è mai avvicinato alle vecchie, in fondo rassicuranti, protezione d'epoca taylorista.
Ancora i numeri, questa volta relativi al lavoro interinale che, nell'ingordigia definitoria, è diventato "a somministrazione". Insomma, il "lavoro in affitto". La fonte, questa volta, è l'ultima indagine trimestrale dell'Ente bilaterale nazionale per il lavoro temporaneo. Dunque, nel terzo trimestre del 2008 la differenza tra missioni avviate e cessazioni ha registrato un saldo negativo di 60 mila unità (pari al 25 per cento delle missioni avviate nel periodo). Ma nel 2007, considerando il medesimo arco temporale, il saldo era positivo, con un numero di assunzioni superiore di circa 7 mila rispetto alle cessazioni. D'altra parte se sprofonda la domanda, nessuno può chiedere lavoro. E già in condizioni normali - secondo l'Istat - un lavoratore temporaneo ha 14 probabilità su cento di perdere il posto entro un anno, contro il 4 per cento del lavoratore tipico.
Gli atipici, si sa, sono i più giovani. Il 21,5 per cento dell'arcipelago del lavoro precario è costituito da lavoratori fino a 34 anni di età. La classe di età compresa tra i 35 e i 44 anni - secondo il Censis - rappresenta il 9 per cento; e ancora meno la classe tra i 45 e i 54 anni: il 6,2 per cento. Ma la precarietà dei giovani - sostiene il Censis - "risulta aggravata" dal netto calo del lavoro tipico nella loro fascia d'età: - 9,5 per cento. E' così che la precarietà è entrata nel ceto medio, perché sono anche i figli di un piccola borghesia poco avvezza alle intemperie del mercato del lavoro, cresciuta all'insegna della stabilità e del progressivo miglioramento del proprio status, a fare i conti con l'incertezza. Certo, sono i precari delle professioni intellettuali, degli uffici, delle consulenze, della pubblica amministrazione, delle università, della ricerca. Non delle fabbriche e neanche dei call center.
Che, probabilmente, restano ad appannaggio delle classi popolari. Ma - ha scritto Aris Accornero nel suo "San Precario lavora per noi" - "non si può escludere che i ceti medi, coinvolti in una precarietà che non avevano mai conosciuto, ne vengano da questa frustrati più di quanto tocchi alla classe operaia, se non altro perché avevano aspettative di una maggiore stabilità dell'impiego". La precarietà allora diventa capillare come fenomeno percepito dalla comunità, aldilà delle sue dimensioni numeriche. Soprattutto perché non esistono paracaduti sociali: il precario, in Italia, è senza rete protettiva.
In un'inchiesta di poco più di un anno fa, la Ces (la Confederazione dei sindacati europei) ha stimato che l'esercito dei lavoratori vulnerabile (o perché no? working poor, come negli Stati Uniti) ha superato i 30 milioni in tutto il continente: sei milioni nella Spagna del boom immobiliare e della iperliberalizzazione del mercato del lavoro, cinque nella Gran Bretagna, deindustrializzata, sei nella Germania dal welfare opulento. Così che - dati Eurostat - la percentuale di lavoro temporaneo in Europa è di poco superiore al 14 per cento (14,3), ma è oltre un terzo nel mercato spagnolo, il 14,2 per cento in Germania, il 13,3 per cento in Francia, il 12,3 in Italia. Una percentuale non clamorosa ma che negli anni, nella mancanza di un progressivo adeguamento delle protezioni sociali, ha inciso fortemente sulla cultura del lavoro e anche sulla scarsa produttività della nostra economia. Perché non può non esserci un rapporto tra la flessibilizzazione disordinata del nostro mercato del lavoro, con le sue frammentazioni e destrutturazioni, con la sua illusione di un'occupazione crescente nonostante un Pil perlopiù stagnante, e il crollo della produttività del sistema. E' solo una coincidenza che dal 1995 al 2004 la produttività media del lavoro sia aumentata da noi solo del 3,1 per cento, contro il 12 per cento tedesco e l'11,8 per cento francese? Eppure nei decenni passati, quelli delle garanzie, eravamo stati noi la tigre europea.
Infine, dopo essere stati tanto flessibili e poi anche precari, i nostri lavoratori atipici difficilmente saranno pensionati, almeno come concepiamo noi adesso questa categoria. Certo - quando lavorano - versano i contributi previdenziali, e il loro è uno dei fondi dell'Inps con il migliore attivo. Ma serve per pagare le pensioni dei loro padri. E forse anche i prepensionamenti decisi, ancora una volta, dall'arroganza della recessione.
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